DEL CORPO SENZA PESO” Testo di Paolo Balmas

Sono nato a Roma ma vi risiedo stabilmente solo dalla metà degli anni ’60. Da quando mio padre, progettista di raffinerie, decise di chiudere la sua carriera nella sede centrale della Compagnia per cui lavorava. Mi ritrovai così iscritto al terzo anno di liceo, sapendo poco o nulla della mia città. Forse fu per questo che il mio docente di lettere, d’accordo con quello di disegno, pensò bene di affidarmi una ricerca sugli edifici barocchi della capitale che sarebbe stata poi messa a disposizione di tutti i miei colleghi. Fu divertentissimo : eravamo io, mio fratello maggiore e una Cinquecento bianca, più un cugino che si mise a nostra disposizione con il suo registratore portatile. Leggemmo pochissimi libri e qualche guida turistica, ma in compenso facemmo un numero esorbitante di interviste a custodi, cappellani, parrocchiani e persino a qualche “cicerone” rigorosamente abusivo.

Giunti nell’area di San Giovanni, io e mio fratello non resistemmo alla tentazione di fare una visita anche al complesso della Scala Santa che con il Barocco c’entrava poco ma aveva molto a che vedere con nostra madre, donna devotissima con una vera vocazione per incantare i bambini facendo apparire fiabesco qualunque racconto. Dentro trovammo effettivamente ciò di cui ci aveva parlato da piccoli: pellegrini da tutto il modo che salivano in ginocchio ciascuno rapito dal proprio sogno mistico o dalla propria ansia di espiazione. Vi trovammo anche qualcos’altro che ci aiutò a capire meglio i problemi stilistici di cui ci stavamo occupando. Gli edifici sacri di Bernini, Borromini, Pietro da Cortona e molti altri ci apparvero d’improvviso per quello che erano nella sostanza: meravigliose macchine teatrali create per contenere nell’involucro dei loro effetti speciali un esercito di comparse la cui parte era già stata scritta in anticipo. Per l’edificio della Scala Santa, invece, valeva il contrario : era stato il rito popolare e non canonico che vi si celebrava sin dagli inizi del Cristianesimo ad aver posto le sue condizioni a tutti gli architetti e gli artisti che nel tempo lo avevano riadattato e risistemato.

Anche Paolo Assenza è partito dall’analisi, o forse sarebbe meglio dire, dal soppesamento, di un simile tipo di potenzialità quando ha voluto vivere più da vicino l’esperienza di cui sono protagonisti ogni giorno decine e decine di pellegrini che neppure si conoscono tra loro ma che, di certo, non sarebbe possibile irregimentare sotto un vessillo diverso da quello della Fede.

L’omologia con quanto intravisto tanti anni fa dallo spaesato gruppetto di adolescenti di cui il sottoscritto faceva parte, però, finisce qui in quanto il nostro pittore ha ben presto intuito la possibilità di alzare la posta rispetto all’eterno gioco delle trasformazioni linguistiche che, attraverso la storia, si scacciano via l’una con l’altra in omaggio a questa o quella scelta ideologica.

Osservando più attentamente chi era impegnato a salire accanto a lui gli stessi gradini che si dice abbiano condotto il Cristo dinnanzi a Pilato, si è accorto, infatti, che l’usanza di infilare piccoli biglietti votivi nelle fessure dei listelli di legno che separano ogni alzata dalla successiva pedata non è affatto tramontata e, di conseguenza, si è posto il problema di quale potesse essere il significato non banale che l’ha aiutata a resistere al tempo e ai suoi mutamenti. Così ottenuti dalla Curia pacchi e pacchi di bigliettini accumulatisi attraverso gli anni, Paolo Assenza ha potuto costatare che nessuno di essi ha tra i suoi desiderato qualcosa che potrebbe avere a che fare con la superbia o la sfiducia nella possibilità di salvarsi, e , in ultima analisi, che nessuno di essi parla d’altro che di ciò che si spera di ottenere da Dio in virtù del tesoro di grazie accumulato dal Salvatore su questa terra.

Di qui l’idea di trovare un tramite simbolico tra i valori universali dell’arte, così come li può percepire un laico, e ciò che, in certe situazioni e a certe condizioni, consente ai credenti di rappresentare il proprio desiderio di felicità come qualcosa di condivisibile o forse addirittura condiviso per definizione da chi si sappia porre nella giusta prospettiva.

La proposta di soluzione, ovviamente, in senso puramente indicativo di una possibile direzione di ricerca, è quella che oggi troviamo nella installazione cui questo scritto si riferisce. Il tramite è l “alleggerimento”, non inteso come rinuncia ai piaceri materiali, ma come ricerca del piacere disinteressato della bellezza. I pellegrini sulla Santa Scala perseguono il loro ideale di penitenza per riavvicinare Dio mortificandosi attraverso il dolore che nega la carne nel riaffermarne la pesantezza. L’artista e chi vorrà seguirlo dovrà invece salire sin da subito su di una scala immateriale perché solo da ciò che è idea dell’immagine, e non immagine pienamente aderente alla singolarità dell’autore, può partire un processo di condivisione non puramente tautolgico, ma

legato alla pienezza del sentire di tutti. Per questo sulla scala senza gradini calpestabili, posta in simmetria inversa sulla parete che separa la galleria “Tra le Volte” dalla venerata reliquia, sono poste, come incollate e pienamente dispiegate nello spazio, delle copie di alcuni dei biglietti esaminati, liberate dalle loro tracce più pesantemente legate ai drammi dell’individuo e tradotte simbolicamente nel sogno luminoso (e leggero) di tanti singoli orizzonti da raggiungere con la speranza che siano già pronti ad unificarsi in un’unico traguardo.

La Scala Coeli testo di Anne Lepoittevin

Guardare una scala su cui si possa salire solo col pensiero, dietro alla Scala Santa che si può solo immaginare, con le due scale che s’incontrano idealmente per formare un triangolo verso un cielo invisibile… è per lo meno un esercizio dello spirito a regola d’arte.

Questa Scala Due è stata pensata per l’Associazione Culturale TRAleVOLTE: un luogo confinante con l’edificio di Sisto Quinto, il pontefice costruttore di età tridentina che volle dare un nuovo e grandioso reliquiario alla reliquia del Pretorio di Pilato; ma anche un luogo di austera bellezza la cui forma suggerisce l’idea d’un cammino sotto una volta terrestre.

Più che un semplice gioco d’arte, la scala di Paolo Assenza è una copia simbolica della Scala Santa. Ma, sia nella lunga storia delle riproduzioni dei luoghi santi che nella non meno lunga storia della copia d’arte, di rado la «copia» nasce per essere collocata accanto all’originale. Quando succede, essa può dialogare col modello senza doverlo

«descrivere».

Nella Scala «vera», il corpo sofferente che sale verso l’icona miracolosa entra in un contatto fugace con la materia. Nella Scala «vera», il legno di noce che copre il marmo di Tiro forse toccato dal corpo di Cristo trasmette al pellegrino la santità del marmo. Sospesa invece come un’idea nel cielo, questa scala leggerissima di fredda luce riflessa sull’acciaio e sul marmo di Carrara, dai ventotto gradini impraticabili, astrae la reliquia della Passione dal coinvolgimento del corpo del pellegrino che segue le orme di Cristo. Dematerrializzata, quasi astratta, la scala di luce orrizontale alleggerisce sia il corpo che la materia fino a diventare un’immagine quintessenziale di scala. Una Scala Coeli che conduce il corpo pesante all’impalbabilità del pensiero.

Di millenni di salite, cosa rimane sul luogo stesso? Paolo Assenza si sofferma sull’idea di memoria, della traccia che l’individuo preso nella ripetizione dei gesti collettivi lascia di due temi al centro di tutta la sua arte, pittura, video o installazione. Sulla scala di luce prendono corpo i biglietti volanti cui i pellegrini affidano nomi e speranze lasciandole un po’ a caso tra le aperture della Scala Santa, sia come tracce di contatto che come voti. Effimeri e babelici minimi ritratti riuniti in un’immensa Roma che nella Scala Santa, percorsa da ortodossi, protestanti, anglicani e cattolici, si libera dal peso degli scismi. Tracce di umanità precarie quanto le loro precise speranze e quanto la stessa nuova scala poiché non c’è forma d’arte più eloquente dell’installazione per evocare la fragilità.

Anne Lepoittevin Docente di storia dell’arte presso l’Università di Borgogna