Vuoto a Perdere – testo di Paolo Balmas

Ad artisti come Andy Warhol o Roy Lichtenstein, fu a suo tempo rimproverato, da alcuni settori della critica, di non rielaborare a sufficienza i soggetti che essi prelevavano dall’universo dei media. Qualcuno arrivò addirittura ad osservare che, venendo a mancare nelle loro opere ogni apprezzabile applicazione di una vera forza lavoro, a rigore, non era neppure possibile parlare di prodotto artistico in senso proprio. Oggi al contrario, la componente “artigianale” che animava quei dipinti ci appare del tutto evidente, a conferma di una particolarissima e quasi paradossale forma di continuità con la disciplina pittorica tradizionalmente intesa.

Mettendo fuori causa i due ideali opposti dell’oggettività e dell’espressività tramite un accorta, e mai definitiva, introiezione dei codici della comunicazione di massa, infatti, la Pop Art era riuscita a far sì che tutte le forme più elementari di gratificazione dell’occhio ( colori vistosi, sagome regolari, iterazione delle icone e via dicendo ), apparissero d’improvviso come rigenerate, liberate dall’ipoteca del Kitsch e immesse nei ranghi di una nuova e più attuale forma di bellezza. Il tutto promuovendo nel contempo una concreta azione di messa in guardia del fruitore circa i rischi della massificazione. Un invito all’assunzione di consapevolezza finalmente non elitario ed estraneo al reale sentire del grande pubblico.

La ricerca artistica di Paolo Assenza non affonda le sue radici nella Pop Art, anzi, ripercorrendone l’evoluzione non è difficile rendersi conto di come siano stati tutt’altri i suoi riferimenti iniziali, tuttavia con la Pop essa ha in comune una delle sue tematiche di fondo: quella della guerra contro le insidie della omologazione mediale. Una guerra che anch’egli, come i suoi predecessori, non affronta arroccandosi in una posizione isolata e sprezzante nei confronti del gusto comune, ma combatte, nei fatti, producendo immagini dotate di una bellezza nuova, una bellezza che non pretende di attingere ad una qualche improbabile immediatezza o purezza, ma piuttosto accetta, entro determinati limiti, la contaminazione con i media stessi e dunque il prelievo e la trasformazione o ricombinazione di quei segni e segnali già definiti il cui flusso continuo attraversa senza sosta la nostra coscienza di abitatori della società liquida.

Rispetto agli anni ‘60, tuttavia, oggi le possibilità tecniche di riproduzione e manipolazione del dato visivo sono aumentate enormemente e, in qualche modo, grazie al personal computer, sono anche entrate, ( o possono entrare ), nella disponibilità di chiunque. Diviene pertanto necessario trovare una strategia che sappia distinguere tra passività e partecipazione, tra accoglimento acritico dell’informazone e rilancio creativo della stessa.

E’ in questa logica che Assenza ha ormai da tempo individuato nella televisione il principlae fattore di assuefazione e di invito all’inerzia cui l’uomo dei nostri giorni si trova ad essere sottoposto. Dire che la televisione ci immobilizza davanti allo schermo e ci cala in una realtà fittizia è ancora troppo poco. Essa funziona piuttosto come una sorta di suadente e ben dissimulato letto di Procuste che ci condiziona nei nostri rapporti con tutto e con tutti anche laddove ci sembri di non darle che un’importanza relativa. Il principio è semplice, alla vecchia, ingenua, formula che tutti abbiamo imparato ad irridere: “è vero l’ha detto la televisione” ne va aggiunta un’altra, ai cui inganni è assai più difficile sottrarsi: “è vero l’ho visto in televisione”. Detto in altre parole se il discorso verbale, anche quello più apparentemente innocente perché puramente denotativo, possiamo essere sempre tentati di passarlo al setaccio di una rigorosa analisi volta a indagarne la fondatezza, per l’immagine non vale nulla di simile, il contenuto di una qualsiasi ripresa, sarà sempre qualcosa che, in prima istanza, ci sembrerà di aver visto in loco e da subito con i nostri stessi occhi. Per smascherare un’omissione verbale può essere sufficiente il buon senso per smascherarne una visiva bisognerebbe conoscere i fatti in anticipo.

Per farci un’idea dei diversi tipi di approdo cui, sulla scorta di queste considerazioni, è successivamente giunto il lavoro di Assenza proviamo a prendere in considerazione due realizzazioni entrambe del 2010: “Dialogo a tre” e “Homo Videns”.

Dialogo a tre” è un dipinto in cui, sedute su di un divano leggermente sottodimensionato, compaiono le sagome di una donna e di un uomo. Mentre il divano, è rappresentato in prospettiva e come rivestito di una stoffa multicolore, i due personaggi sono appiattiti entro il loro contorno (definito con la precisione di un ricalco) e dipinti “a plat” con un blu irreale che evoca la freddezza di uno shermo elettronico, uno schermo non rappresentato ma comunque presente cui rimandano anche le linee verticali che, come un disturbo di trasnissione, (ma non senza una qualche eleganza), attraversano tutta la superficie del quadro. Altro non c’è sulla scena , tranne due particolari rivelatori, le mani di lei e gli occhiali di lui dipinti in un rosso rilanciato attraverso il blu con ammirevole sapienza pittorica. La metafora è evidente: lei è alla ricerca di un maggiore contatto, lui non se ne accorge neppure in quanto, immerso in ciò che sta guardando, è come se non vedesse più nulla di ciò che ha intorno. Il terzo interlocutore non è dunque il televisore,come si potrebbe pensare, ma la televisione stessa. Un complesso apparato di cattura che tuttavia non ha ancora avuto definitivamente ragione delle sue inconsapevoli, ma anche un po’ colpevoli, prede, come ci dimostra il fatto che tutto l’insieme non ci appare asfittico ed opprimente, bensì ricco di potenzialità e di fascino. Potenzialità ribadite da un’altra possibile metafora che diviene abbastanza facile istituire se si prende in considerazione l’attività di Paolo Assenza come vieo-macker dichiaratamente legato alla pittura. Le strisce verticali, infatti, potrebbero anche essere quelle presenti nell’interfaccia di qualsiasi programma di postproduzione video, linee di separazione tra i vari fotogrammi che consentono di integrarne e svilupparne a piacere l’area di competenza. La televisione ci guarda ma lo sguardo del pittore può insegnarci a resistergli in quanto il suo modo di gestire il fattore tempo ha un’infinità di risorse esistenziali impossibili da sottomettere.

Homo videns, è un’installazione realizzata la scorsa estate presso l’Ecole Normale Superieure di Parigi. Venti manichini, seduti su altrettante poltroncine, danno le spalle ad una rassicurante, facciata classicista e sembrano rivolgersi ad una facciata ultramoderna, tutta vetro e cemento, all’interno di un medesimo cortile. I manichini il cui ritmo costante si interrompe solo in concomitanza della porta dell’edificio più antico (una vecchia biblioteca) formano un’unica fila priva di vettorialità e sembrano essere l’uno il calco dell’altro. A ben guardare però ci si accorge che sono stati realizzati uno per uno in modo artigianale riempiendo una rete metallica sagomata ad hoc di pallottole di carta colorata. Il titolo, ripreso da una pubblicazione di Giovanni Sartori, in cui il tema dello snaturamento prodotto nella nostra società dall’eccesso quotidiano di informazione visiva, conferma quanto sarebbe comunque evidente: i manichini non solo hanno mani e piedi amputati e dunque non sono più in grado né di allontanarsi dalla loro postazione né di appropriarsi di alcun oggetto reale, ma non hanno neppure più la testa, sede dell’apparato percettivo e conoscitivo. Inoltre le pagine accartocciate di cui sono riempiti provengono da riviste illustrate, un materiale apparentemente vivace, ma in realtà inerte e privo di peso che ha preso il posto di carne, ossa ed organi. Il destino dei nostri personaggi è segnato, essi non possono che continuare a stare seduti e riempirsi di qualcosa che sempre più li svuota e li deforma. All’interno della biblioteca, inoltre, una serie di vecchi libri bruciati ma ancora parzialmente leggibili o riconoscibili, rafforzano l’assunto. La cultura della parola, ovvero dell’intelletto e del dialogo tra individui attraverso la storia, sta morendo, senza che neppure se ne possa più additare, come in passato, un unico barbaro responsabile.

Una lamentazione priva di speranza? Una dichiarazione di resa? Paolo Assenza si è forse affidato all’installazione per sconfessare ciò che fino a poco prima ancora veniva dicendoci attraverso la pittura?

Non lo credo affatto e la mostra che oggi si inaugura sembra confortare questa mia opinione. “Homo videns” è servita per fare il punto della situazione e mettere le mani avanti rispetto ad ogni forma di superficiale ottimismo, ma ora i dipinti ed il video che qui vengono presentati ci indicano che quel principio di resistenza già segnalato in passato si sta facendo strada ulteriormente grazie a nuovi sviluppi, forse inattesi, ma sicuramente ben ponderati. Le linee verticali si vanno diradando, non perché sia divenuto meno importante il riferimento allo schermo televisivo, ma perché i singoli fotogrammi di una stringa che oramai ricalca da vicino la vita stessa cominciano ad apparire sviluppabili in maniera meno rigida, più autonoma e disancorata dal principio del puro incastro figurale sia pure formalmente raffinatissimo. Anche i colori si stanno svincolando dall’accordo di fondo del rosso e del blu per meglio adeguarsi ad una intrigante ricomparsa del dato volumetrico. Ma soprattutto la scelta e la rielborazione delle immagini di partenza sta tentando, pur nella continuità, di imboccare una strada più larga e più disponibile al simbolico. Ora sono fotografie realizzate in proprio o comunque prescelte da questa o quella fonte, fidandosi del richiamo che esse stesse sembrano emettere, e sono anche duplicazioni, torsioni, dislocamenti che pur nella verificabilità costante del meccanismo ad esse sottese, vanno sempre più assumendo una loro valenza narrativa. Certamente si tratta di una narrazione inquietante, priva di certezze e come sospesa su di un mistero di cui non riesce e forse non vuole neppure venire a capo. Ma quando mai l’arte non è stata inquietante, priva di certezze e abitata dal mistero?

Paolo Balmas